articolo da Limes

Barcellona come Brexit: perché alla Cina non piace il voto in Catalogna

Dettaglio Catalogna Europa

[Dettaglio della carta di Laura Canali. Per vedere la versione integrale, clicca qui.]

BOLLETTINO IMPERIALE Tutto ciò che mette in crisi gli equilibri nell’Unione Europea danneggia la globalizzazione con caratteristiche cinesi. Soprattutto, qualunque movimento tendente a disgregare lo Stato è un esempio negativo per la Repubblica Popolare. Pechino deve assicurarsi la stabilità di Tibet, Xinjiang e Hong Kong e impedire la formale indipendenza di Taiwan.

 

La Repubblica Popolare Cinese (Rpc) segue con apparente distacco gli sviluppi del referendum in Catalogna, svoltosi il 1° ottobre. I media cinesi ne hanno raccontato l’andamento, gli episodi di violenza che sono seguiti, la contrarietà di una parte della popolazione spagnola all’indipendenza catalana, l’illegalità del procedimento secondo Madrid e l’impatto negativo per la Spagna e l’Europa.


Del resto, i rapporti tra Pechino e Madrid sono complessivamente positivi. La Spagna, che vorrebbe inserirsi maggiormente nel mercato cinese, è coinvolta nei progetti infrastrutturali delle nuove vie della seta e il gigante della logistica cinese Cosco controlla la maggiornza della Noatum Port Holdings, che gestisce il più grande terminal container nel porto di Valencia (tra i primi porti del Mediterraneo e capoluogo della Comunità Valenciana) e l’unico dello scalo di Bilbao, rispettivamente nel Nord-Ovest e nell’Est del paese.


La Cina è inoltre il quinto partner commerciale della Catalogna (8,8 miliardi di euro di interscambio), preceduta dal resto della Spagna (38,6 miliardi), dalla Germania (22,3 miliardi), dalla Francia (17,7 miliardi) e dall’Italia (11,6 miliardi). La regione ha evidentemente una proiezione europea e l’eventuale indipendenza obbligherebbe il neo-Stato non solo ad avviare le procedure di accesso all’Ue, ma anche a realizzare nuovi accordi commerciali con questi paesi per tutelare il business che li lega.


Tuttavia non è la relazione sino-spagnola a determinare la limitata attenzione della Cina al referendum.


C’entrano di più i rapporti con l’Ue. Tutto ciò che mette in crisi gli equilibri nell’Unione Europea – inclusi i movimenti indipendentisti e i populismi – è percepito da Pechino come un danno ai rapporti con il Vecchio Continente e alla globalizzazione con caratteristiche cinesi. L’Ue è il primo partner commerciale della Cina, una meta privilegiata dei suoi investimenti (le prime tre destinazioni qui sono Germania, Regno Unito, Italia) e un attore su cui esercitare il proprio peso economico anche in chiave anti-Usa. Questi trend potrebbero consolidarsi con lo sviluppo delle nuove vie della seta, che tra i tanti obiettivi hanno anche incrementare il commercio con il Vecchio Continente.


Lo scorso anno, Pechino fece chiaramente capire a Londra di essere contraria al Brexit. Il governo cinese vedeva nel Regno Unito non solo un partner privilegiato per fare affari, ma anche un potenziale mediatore nei rapporti con Bruxelles per accedere più agevolmente al mercato unico, far riconoscere alla Repubblica Popolare lo status di economia di mercato (obiettivo sinora mancato) e agevolare l’internazionalizzazione dello yuan. L’impatto del caso catalano è inferiore a quello del Brexit sul piano economico, ma non per questo vanno sottovalutate le sue conseguenze.


Soprattutto, c’entra la politica interna della Cina. Il referendum in Catalogna, coinciso casualmente con il 96° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare (1 ottobre 1949), è un esempio negativo per l’obiettivo (l’autodeterminazione), le irregolarità e le violenze che l’hanno segnato. A prescindere dal sistema politico di cui è dotato, nessuno Stato accetta di buon grado movimenti indipendentisti, tantomeno la Cina.


Quando Mao Zedong fondò la Repubblica Popolare, riuscì dove avevano fallito i sovrani in epoca imperiale: si assicurò il controllo di tutte le regioni cuscinetto (Tibet, Xinjiang, Mongolia Interna e Manciuria), indispensabili per proteggere l’heartland cinese e impedire le invasioni via terra. Da quel momento, per Pechino è diventato prioritario garantire la stabilità di queste regioni, integrare le minoranze etniche (55, più la maggioritaria Han) e impedire l’emergere di movimenti indipendentisti che che mettano in discussione la sovranità territoriale della Rpc.


Oggi Tibet e Xinjiang restano regioni sensibili sul piano geopolitico, ma sono complessivamente stabili per via dell’abbinamento (spesso contestato in Occidente) di rigide misure securitarie e provvedimenti volti alla loro integrazione nei gangli dell’economia cinese. Nel raggiungimento di questo obiettivo è stato decisivo il ruolo di Chen Quanguo, che dal 2011 al 2016 è stato capo del Partito nella prima regione e ha incrementato qui il livello di sicurezza attraverso una fitta rete di sorveglianza e dispiegamento di forze di polizia. Il successo in Tibet è valso a Chen nel 2016 lo spostamento nel Xinjiang, dove sta adottando i medesimi sistemi. Obiettivo: irrobustire la campagna antiterrorismo in corso per arginare il jihadismo interno alla comunità uigura (minoranza turcofona e musulmana), che rivendica peraltro un forte legame con la Turchia. Nel Xinjiang la principale minaccia è rappresentata dal Movimento per l’indipendenza del Turkestan Orientale (acronimo inglese Etim) e dal Partito del Turkestan Islamico (Tip, successore dell’Etim), entrambe considerate organizzazioni terroristiche responsabili di attentati in Cina.



Nel contesto della prospettiva cinese sugli indipendentismi, rileva anche la questione di Hong Kong, di cui Deng Xiaoping nel 1997 ottenne la restituzione di dal Regno Unito per trasformarla in una regione ad amministrazione speciale cinese (Hksar). Il rapporto tra governo centrale e Hksar è regolato dal principio “un paese, due sistemi”, in base al quale la seconda usufruisce di maggiori libertà economiche, sociali e politiche rispetto al resto del paese. Ciò permette agli honkonghesi di protestare contro Pechino, come accaduto lo scorso 1° ottobre. Nell’ex colonia britannica, una parte della popolazione pretende un sistema “genuinamente” democratico e perfino l’autodeterminazione, ma è assai improbabile che raggiunga questi obiettivi.


A vent’anni dalla sua restituzione, Hong Kong è sempre più parte integrante della Cina sul piano economico e politico. Pechino vuole consolidare la proiezione internazionale del “Porto profumato” nel contesto delle nuove vie della seta, preservandone le attuali libertà e il ruolo di polo finanziario.


Infine, si consideri la questione di Taiwan, di cui recentemente il nuovo premier Lai Ching-te ha detto di sostenere l’indipendenza. Immediatamente il governo della Repubblica Popolare ha risposto che Taiwan non è e non sarà mai uno Stato, facendo capire che una dichiarazione formale in tale senso incrinerebbe seriamente i rapporti a cavallo dello Stretto. Lungi dal voler superare questa linea rossa, la presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha sminuito le affermazioni di Lai e precisato di voler ricercare un “nuovo modello” per dialogare con la Cina continentale.


Pechino ha sospeso il dialogo ufficiale con Taipei da quando Tsai, all’inizio del suo mandato, si è rifiutata di riconoscere esplicitamente il cosiddetto “Consenso del 1992”. In base ad esso, entrambi i governi affermano l’esistenza di “una sola Cina”, pur non essendo d’accordo su chi dei due debba guidarla. A prescindere da ciò, la Repubblica Popolare non ha dubbi, prima o poi l’isola di Formosa deve tornare sotto il proprio controllo.


Difficilmente nelle prossime settimane Pechino dedicherà grandi attenzioni a Barcellona. L’agenda cinese è fitta d’impegni: una settimana di festa nazionale; il cruciale 19° Congresso nazionale del Partito comunista cinese, (inizio il 18 ottobre) che durerà circa sette giorni; la visita del presidente Usa Donald Trump i primi del mese successivo, durante il quale Cina e Stati Uniti faranno il punto sulle loro relazioni, a cominciare dalle questioni commerciali e dai venti di guerra in Corea del Nord. Tutte ulteriori ottime ragioni per non dare risalto alla Catalogna.