intervento di Roberto Pinter all’assemblea di Italia Tibet per i suoi 30 anni

Rimini 6 maggio 2018

La questione tibetana non va confusa con la questione cinese. Nel senso che le ragioni di chi contrasta il predominio cinese possono anche sovrapporsi, ma non sono necessariamente le ragioni di chi vuole la libertà per il Tibet. Possono opporsi alla Cina chi vede nella Cina una pesante influenza economica e ora sempre più anche militare (vedi Corea del Nord), ma prendersela con i cinesi che comprano le economie di mezzo mondo non vuol dire difendere i diritti dei tibetani. E dobbiamo distinguere l’odio per i cinesi dalla solidarietà con i tibetani, anche perché non sarà mai dall’odio contro qualcuno che nascerà la libertà per il Tibet.

Certo può far piacere che gli USA agitino periodicamente il tema dei diritti umani ed esprimano simpatia per il Dalai Lama ma dobbiamo sapere che lo fanno nel contesto di un conflitto per il dominio economico e militare. Hanno sostenuto i tibetani per contrastare il comunismo ma in ogni latitudine del mondo hanno utilizzato le minoranze e i diritti umani come pretesto per affermare la propria egemonia, tant’è che hanno e continuano a sostenere regimi autoritari se funzionali alle loro mire geopolitiche.

Così come è importante che l’India abbia accolto il Dalai Lama, ma non possiamo ignorare che l’India calpesta le minoranze sul proprio territorio e che il nazionalismo di Modi non si differenzia dal nazionalismo cinese. Hanno ospitato i tibetani ma l’ambiguità caratterizza la politica nei loro confronti, usando i tibetani nei conflitti sui confini e non disdegnando di sacrificarli qualora fosse utile nei rapporti tra le due potenze.

Mi astengo da valutazioni sulla preferibilità di un conflitto tra India e Cina o di una distensione nell’ottica di una soluzione per il Tibet, anche se sono consapevole dei costi umani che ogni recrudescenza dei conflitti porta con se, ma sono certo che non è nell’interesse primario dell’India assicurare un futuro di libertà ai tibetani.

Guardiamo a cosa succede in Siria dove i Kurdi sono stati sostenuti quando si trattava di fermare l’Isis e ora vengono bombardati dai turchi perché la Turchia vuole evitare uno stato kurdo autonomo.

Guardiamo in Birmania dove il Nobel per la pace non si distingue nella difesa della minoranza dei Rohinga o a quello che succede in ogni parte del mondo: la Russia si annette la Crimea e si affermano ovunque i nazionalismi e in nome della non interferenza ognuno è autorizzato a fare quello che vuole a casa sua, anche nella nostra Europa.

Putin, Erdogan, Trump non sono differenti da Xi Jinping.

Dobbiamo essere purtroppo consapevoli di questo: nell’ultimo secolo sono state tante le colonie che hanno riacquistato l’indipendenza ma non necessariamente questo ha portato con se democrazia e libertà, sono tante le aree che sono uscite dalla miseria e contribuiscono alla crescita economica del pianeta ma non sono migliorate le disuguaglianze, anzi la ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di pochi e non cambiano le disuguaglianze tra paesi. E in tutto questo chi paga il tributo più alto sono le minoranze, etniche, religiose, politiche. Ovunque calpestate tranne dove si sono costituiti stati federati o confederati o dove le autonomie sono state riconosciute come in molti paesi europei.

Certo anche nella costituzione cinese si riconoscono le minoranze ma la realtà è purtroppo ben altra.

C’è una questione cinese nel senso che la Cina pone al mondo una serie di questioni che portano con se dei grandi cambiamenti: nell’equilibrio tra potenze, nelle sfere di influenza, nell’economia e nella finanza, nelle sfide energetiche e con la nascita di nuove classi media (insieme a molte aree del sud est asiatico) e con la loro mobilità economica, culturale e turistica. Problemi per gli Usa ma anche per l’Europa che vede minate le proprie certezze e il proprio benessere, temi che qui non c’è tempo per affrontare.

Ma la domanda è: cosa può portare ai tibetani tutto questo?

Lo sviluppo economico cinese ha portato senz’altro ad uno maggior sfruttamento del Tibet e alla sua trasformazione in un nuova meta turistica con tutti gli stravolgimenti che la rivoluzione culturale non aveva portato, quello che non sono riusciti in 50 anni di occupazione provano a farlo adesso con il completo stravolgimento di un paese e della sua cultura millenaria. E forse i tibetani che hanno resistito ai campi di rieducazione sono più in difficoltà rispetto alla globalizzazione dei consumi.

Eppure è solo dalla questione cinese che dipende il futuro dei tibetani , nel senso che se sono vere le premesse non c’è nulla da aspettarsi dalle grandi potenze ,dall’Onu che non c’è più, dalla diplomazia internazionale sempre più piegata dagli interessi nazionali e dal bisogno che tutti hanno di interrelazione con la Cina.

Nel senso che le trasformazioni della Cina, economiche ma anche culturali, possono aprire nuove contraddizioni rispetto alle classi emergenti, alle domande di diritti. Non affermo certo che lo sviluppo porti con se democrazia e diritti o che una nuova classe media non sia compatibile con regimi autoritari, ma il destino del Tibet si deciderà nell’ambito di queste trasformazioni, in una realtà con 52 minoranze e con un pluralismo religioso crescente e con crescenti contaminazioni.

Il destino del Tibet non dipende dalla linea del governo in esilio o del Dalai Lama, la Cina non cambierà atteggiamento se i tibetani saranno più arrendevoli o se chiederanno di nuovo l’indipendenza, la Cina non cambierà se non si innescheranno processi di trasformazione interna.

Non ha alcun senso considerare un errore la scelta della genuina autonomia perchè non esiste un’altra possibilità almeno che non auspichiamo un ulteriore sacrificio di vite dei tibetani.

Non possiamo superare la nostra frustrazione per gli sviluppi che non vediamo nella causa tibetana, rilanciando la richiesta di indipendenza, in un mondo che non accetterà più nuove indipendenze e che solo se costretto dagli eventi potrà riconoscere delle forme di autonomia. E’ singolare che siccome non possiamo avere tanto allora chiediamo tutto.

Il problema non è la linea del CTA ma quello che possiamo e dobbiamo fare noi.

La nostra giusta frustrazione è quella di non riuscire a cambiare le cose qui, di non riuscire a cambiare la sensibilità dei nostri politici e dei nostri amministratori, di non riuscire a cambiare la politica internazionale dell’Italia e di non ottenere un impegno vero per il rispetto dei diritti umani.

E per questo dobbiamo continuare a fare quello che abbiamo fatto:poco si sa, ma quel poco facciamolo bene.

Nel mondo della globalizzazione potevamo attenderci la globalizzazione dei diritti, non è andata proprio così ma non abbiamo il diritto di rinunciare al nostro impegno.

Qualcuno ha detto che la tradizione non si difende conservando le ceneri ma tenendo viva la fiamma.

Ecco io penso che questo sia il nostro compito. Tenere accesa la fiamma, non quella che brucia impotente i corpi dei tibetani, ma quella che tiene viva la forza morale spirituale culturale dei tibetani. Continuare a resistere perché il mondo non cancelli questa preziosa e unica realtà.

Cambiano le classi politiche e non sono cambiamenti che assicurano miglior risultati perché vedo anche nelle forze politiche vincenti l’allinearsi con Putin o con gli Usa, le convenienze con la Cina e gli altri paesi emergenti, e una terribile superficialità rispetto a questioni che per il loro valore meriterebbero ben altro approccio.

Noi dobbiamo sviluppare l’iniziativa di sensibilizzazione, riprendere l’azione di pressione verso i neoparlamentari e verso ogni ente locale, ma consapevoli che abbiamo bisogno di più della simpatia occasionale. D’altronde se uno si definisce amico dei tibetani e vuole impedire la professione di altre religioni, o guarda con simpatia al Dalai Lama come guarda a Putin o vuole accogliere i tibetani e respingere i migranti. Qualche contraddizione c’è e grande come la politica.

Io credo che la causa tibetana ha una cifra unica e l’avrà fintanto che non cambierà la natura , perchè se rinunciasse alla nonviolenza o se cominciasse a ragionare con l’odio verso la Cina perderebbe ogni differenza di valore.

Saranno anche ingenui e rinunciatari i nostri amici tibetani ma loro hanno un patrimonio che noi non abbiamo e dobbiamo comunicare al mondo questa verità.

Lo so che delle volte siamo visti come nostalgici di un mondo perduto,e può darsi che un po’ lo siamo tutti.

Ma il Tibet non è solo il fascino di una cultura millenaria e di una terra unica, è anche la vita di milioni di tibetani, è anche storia di umiliazioni e repressioni che dobbiamo cambiare.

Ed è giusto affermare che c’è più vita e speranza su quelle montagne e in quel popolo che nelle capitali dello sviluppo e nei milioni di disperati che abbandonano le loro terre per abitare le nostre metropoli.

Noi dobbiamo coltivare questa fiamma, questa speranza, di un mondo senza violenza e rispettoso del pianeta e delle diverse forme di vita, rispettoso di ogni popolo e di ogni cultura.

Noi dobbiamo semplicemente e drammaticamente coltivare questa utopia.