Il popolo del Tibet tra oppressione e liberazione

Intervista. Ritu Sarin e Tenzing Sonam parlano del loro film “The sweet requiem” storia storia di una donna tibetana esiliata a Delhi

Ladakh, Himalaya, confine ultimo tra Tibet e India, tra oppressione e liberazione: la soggettiva traballante di una bambina, abbarbicata alle spalle del padre, mentre i passi e il respiro affannoso di lui affondano nella neve… Intanto la piccola carovana mal equipaggiata, in cerca di salvezza dal Tibet, sotto occupazione cinese da 60 anni, sembra minuscola nello spazio ignoto della catena montuosa più aspra della terra.

Oggi, nel vissuto di Dolkar, giovane donna tibetana rifugiata a Delhi – e cuore di The sweet requiem di Ritu Sarin e Tenzing Sonam (nei giorni scorsi a Trento FF e allo Spazio Oberdan di Milano) – c’è il precipitato delle sofferenze degli esiliati del suo popolo, tra i labirinti angusti dove risiede la comunità dei rifugiati, e i sotterranei del dolore per la perdita del padre, ucciso dalle guardie cinesi durante la fuga, per la separazione dalla madre e la sorella, nonché l’inquietudine per la figura di Gompo, un tempo guida di quella spedizione e ora ritrovato tra gli attivisti per la causa tibetana in India, la questione atroce di chi sia un traditore, e di chi invece ha in sé speculari ferite…

Nel tracciato trentennale di questa coppia di registi, la testimonianza della cultura tibetana tra documentari – anche a seguire i viaggi del Dalai Lama – film di finzione come Dreaming Lhasa, prodotto da Richard Gere, e campagne in Europa e Usa.

A proposito della genesi del film…

Una lunga gestazione. Nel ‘95 un nostro amico, il fotografo Manuel Bauer, attraversò l’Himalaya con un uomo tibetano e la figlia di 6 anni, che fuggivano verso l’India. Le sue foto rivelarono i tremendi disagi fisici e i pericoli di quella fuga. Anni dopo, nel 2006, altri, che scappavano attraverso il passo di Nangpa-La, a 5800 metri, furono uccisi da guardie cinesi di confine. Tra loro anche una monaca di 17 anni. I video di queste uccisioni furono diffusi da uno scalatore. Nel tempo questi fatti e le loro tracce visive hanno nutrito in noi delle domande: perché, dopo quasi 50 anni dall’occupazione, i tibetani stavano rischiando ancora la vita per fuggire in India? Tra loro c’erano molti ragazzi? E cosa gli accadeva una volta in India? The Sweet requiem è un tentativo di tessere questi fili disparati attraverso una storia intima e personale, in parte un thriller psico-politico e in parte un dramma di fuga. Nello stesso tempo è una esplorazione della materia dell’esilio – memoria e colpa – e delle conseguenze inaspettate delle nostre scelte, un racconto di sofferenza e perdono, del disperato bisogno nell’esilio di trovare redenzione e senso. In questo la storia trascende il suo specifico contesto e tocca preoccupazioni universali.

A che punto è il vostro tracciato tra arte e attivismo, e come percepite la coscienza globale?

Abbiamo scelto di fare film sul Tibet consapevolmente dall’inizio. A quel tempo la maggior parte delle opere erano realizzate da non tibetani. Invece era cruciale raccontarsi in prima persona. E poiché era impossibile parlare apertamente dall’interno, spettava ai tibetani in esilio. Oggi, sotto il furioso assalto delle politiche coloniali cinesi, il Tibet si confronta con il pericolo di sparire, come nazione e come popolo. La sua battaglia non è differente da tante sul pianeta contro l’annientamento del capitalismo. Purtroppo, poiché ora la Cina è così potente, la questione del Tibet è scomparsa dalla pubblica consapevolezza. Questo rende più cruciale continuare a richiamare attenzione.

Il film pone l’accento sulla questione dei traditori tibetani e sul dilemma della fiducia, a dispiegare una dimensione thriller…

Le spie fanno parte della realtà dei tibetani in esilio. Molti lavorano per le forze di sicurezza cinesi, e a volte i più crudeli e violenti contro i tibetani sono i loro stessi compagni. Volevamo disvelare come l’enorme ingiustizia dell’occupazione cinese, se lasciata incontrollata, abbia una influenza perniciosa sugli stessi tibetani. Quanto alla sfumatura thriller, la cercavamo dall’inizio. In parte era dettata dalla disposizione fisica degli insediamenti tibetani a Delhi, piena di vicoli angusti, e in parte dall’angoscia della protagonista.

Nel film non c’è soluzione di continuità tra linea del passato e quella del presente..

Nella sceneggiatura le due linee sono state scritte come storie differenti e questo ci ha dato più libertà di intrecciarle al montaggio: la fuga dal Tibet, che ha luogo nel passato, ed è primariamente fisica nel suo impeto; e l’ossessione di Dolkar verso Gompo nel presente, che è più psicologica. Volevamo inoltre focalizzarci maggiormente sullo stato interiore attuale di Dolkar e quindi il passato è necessariamente frammentato.

Come vi siete relazionati registicamente a queste due storie così diverse?

Per noi era importante che il lavoro della camera trasmettesse le traiettorie sovrapposte del passato e del presente. In questo il paesaggio dei volti era altrettanto importante di quello degli ambienti. Nello stesso tempo, l’uso predominante della camera a mano ci ha reso possibile amplificare il senso di urgenza sia fisica sia psicologica, di sfrecciare verso una oscura ma inevitabile collisione. Le condizioni climatiche e fisiche sorprendentemente diverse delle ambientazioni di queste due storie ci hanno poi naturalmente condotto a una supervisione anche uditiva che ne enfatizzasse caratteri contrastanti. Le scene di fuga, ambientate in un paesaggio duro e desolato, sono del tutto prive di presenze umane e animali, eccetto il gruppo. La pura audacia e disperazione del tentativo di queste persone – cercare di attraversare la più alta montagna sulla terra, a piedi, male equipaggiati, e con provviste insufficienti – subito diventa evidente. La luce dell’altitudine estrema è naturalmente dura e si aggiunge al percepire che si tratta di scene dall’infanzia di Dolkar, viste attraverso le lenti della memoria. Gli unici suoni, il vento, il rumore dei passi e brevi dialoghi sono amplificati dalla solitudine del nucleo in fuga.

D’altro canto, le scene nel presente hanno luogo per lo più nelle affollate e claustrofobiche vicinanze di Majnu ka Tila, l’enclave autonoma dei rifugiati tibetani a Delhi, con il suo labirinto di vincoli pedonali. Girate in gran parte di notte, hanno un profumo noir, in cui le ombre tungsteno e fluorescente alimentano il turbamento interiore di Dolkar. In diretta opposizione con il paesaggio sonoro ovattato delle scene di fuga, il costante rumoreggiare della città, il suo battito senza sosta ad alto volume, urgente e dissonante, supporta la sua ricerca sempre più disperata di una redenzione nel presente.

Sì, le due storie hanno atmosfere fotografiche e sonore molto dissonanti ma al tempo stesso è come se tutto si generasse dalla percezione interna infantile e adulta di Dolkar..

Abbiamo voluto narrare con lo sguardo femminile, perché in un mondo in cui ancora incombe la percezione maschile, crediamo possa contemplare storie più compassionevoli e sfaccettate.

Due volte avete associato i video delle autoimmolazioni all’immagine di Dolkar che accende un incenso prima di pregare. Potete parlarci di questo legame complesso tra spiritualità e politica, anche estrema?

Dal 2009 si contano circa 150 tibetani che si sono dati fuoco. Alcuni lasciano lettere e descrivono il loro sacrificio come un’offerta di luce a disperdere l’oscurità scesa sul Tibet. Questa l’idea che abbiamo voluto associare al gesto di Dolkar ma, oltre la motivazione politica, rimanda anche alla nozione buddista di offerta come autosacrificio per il bene degli altri.